La strana storia del Regime Change in Iran

L’Ayatollah Ali Khamenei, Guida Suprema della Repubblica islamica iraniana è asserragliato con i suoi familiari in un bunker, ha già demandato i suoi poteri ai militari ed è pronto a lasciare il Paese verso la Russia di Putin. Questa, in estrema sintesi, la narrazione di questi giorni che arriva da Israele, ripresa da parte della stampa mondiale. È pura propaganda di guerra o c’è qualcosa di vero? L’Iran – così come lo abbiamo conosciuto dal 1979, un regime teocratico estremamente conservatore - è vicino al collasso? Khamenei e la sua successione Partiamo dalla Guida Suprema e cosa sappiamo di certo: Ali Khamenei, nato nel 1939, ha 86 anni e la sua salute è incerta. Da anni non lascia l’Iran e, sia in tv che tramite i suoi canali social, ha detto che la vendetta contro Israele è imminente, che non ci sarà pietà contro il nemico sionista. Toni che non fanno pensare a una resa, anzi: toni da propaganda di guerra. La tenuta del regime teocratico è anche garantita dalla Costituzione, che prevede che l’Assemblea degli Esperti – composta da 88 membri – elegga il suo successore dopo la sua morte. Le ipotesi principali sono Mojtaba Khamenei, il figlio, figura legata al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica , benché non abbia ancora il grado di Ayatollah e il modello ereditario sia controverso. Oppure, qualche altro clerico legato all’appartato dell’IRGC che non sia un membro ereditario diretto. Riforma o golpe Prendendo in considerazione l’ipotesi che l’Ayatollah Khamenei lasci l’Iran, ci sono altre ipotesi, oltre a quella costituzionale. Secondo diversi analisti, potrebbe profilarsi una riforma gestita dall’interno: un cambio apparente, con maggiori aperture civili, libertà individuali, ma senza mettere in discussione il potere consolidato del clero e dell’IRGC. Oppure, potrebbe esserci un colpo di Stato guidato dalle Guardie della Rivoluzione Islamica, se temessero un’esplosione incontrollata della protesta di massa. Questo produrrebbe un regime dal volto militare. Al momento, va detto con chiarezza, non c’è alcun segnale di scollamento tra militari e clero in Iran. Anzi, possiamo dire che i vertici delle catene di comando sono stati rimpiazzati e che non ci sono segnali di sommovimenti di piazza evidenti, da quando sono cominciati i bombardamenti israeliani. Il fronte interno Dalle proteste del 2009, al movimento di indignazione e protesta seguito alla morte di Mahsa Amini del 2022, fino alle manifestazioni studentesche attuali, l’opposizione interna è costante, ma priva di una leadership istituzionale consolidata e di una reale capacità di incidere sugli equilibri di potere. Dalla analisi dei voti delle ultime elezioni, peraltro caratterizzate da una massiccia astensione, ad altri dati macro-economici si evince che le nuove generazioni sono perlopiù contrarie al regime. A loro si aggiungono attivisti politici e artisti , ma in generale la repressione di ogni forma di dissenso non ha mai permesso la nascita di una leadership riconosciuta. E in questi giorni, non ci sono segnali di proteste o di boicottaggio. Per prendere in considerazione tutte le ipotesi, anche le più asssurde, un elemento cruciale sarebbe se parti delle forze di sicurezza si allineassero alle proteste. Ciò renderebbe possibile un cambio dal basso. La verità è che non ci sono stati e non ci sono oggi segnali concreti che vanno in questa direzione. L’opposizione in esilio L’esilio politico iraniano è profondamente frammentato, composto da monarchici, movimenti vari e gruppi religiosi o armati. Il MEK è un’organizzazione che opera quasi solo in esilio, senza presenza attiva in Iran; viene criticata per comportamenti definiti "simili a un culto". Ci sono poi partiti come il Constitutionalist Party, che propone una monarchia costituzionale, ispirata alla Rivoluzione Costituzionale del 1906. Queste organizzazioni appaiono molto scollate da ciò che accade nel Paese e vengono spesso rimproverate dagli stessi oppositori del cosiddetto fronte interno di non condividere la vera sofferenza del popolo iraniano. Nella sostanza, hanno più eco quelle singole personalità – come il premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, l’attivista Nasim Eshqi, l’artista Shirin Neshat, i registi Raha Amirfazi e Alireza Gashemi – che sono stati costretti a lasciare l’Iran a causa della repressione e delle minacce. L’erede dello Scià di Persia Reza Pahlavi è il figlio dell’ultimo Scià, vive negli Stati Uniti e ogni tanto, nei momenti più complicati o nei momenti di debolezza del regime teocratico, compare come una opzione di regime change. È vero che rappresenta la figura più riconosciuta e pubblica e che, anche in questa occasione, ha rilanciato la sua proposta politica non violenta, democratica e moderata. In sostanza, pur sostenitore di una monarchia simbolica, ha suggerito che il futuro sovrano possa essere eletto e che non debba essere necessariamente lui stesso uno dei candidati. Ha rivendicato un ruolo da “unificatore”, in passato aveva chiesto anche di usare gli asset iraniani all’estero per finanziare scioperi interni e colpire l’economia di regime. Il suo vero punto debole, tuttavia, è che la sua popolarità all’interno dell’Iran è limitata e controversa, praticamente l’ipotesi di un suo rientro trionfale in Patria è più una ipotesi di una parte della stampa occidentale che un concreto e possibile sviluppo degli eventi.

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